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Alex Schwazer, l’autobiografia: “In Turchia per doparmi, ero un tossico”

È stato pubblicato il libro dell’ex marciatore: «La prima volta che uscii con Carolina le versai addosso un drink. La mia solitudine simile alla sua. Mia moglie? Non mi filava»

Riportiamo un articolo con relativa intervista apparso oggi su corrieredelveneto.corriere.it che riguarda l’infinita vicenda di Alex Schwazer.

A nove mesi dall’archiviazione del procedimento penale per doping, scaturito dall’accusa giunta alla vigilia delle Olimpiadi di Rio 2016, e a sei mesi dal no del Tribunale arbitrale dello sport di Losanna che gli ha precluso i Giochi di Tokyo, Alex Schwazer pubblica per Feltrinelli la sua autobiografia. Dalla copertina — che lo vede immortalato trionfante, a braccia alzate, all’ennesima vittoria del marciatore altoatesino — si presenta al lettore come «una storia di cadute e di redenzioni, di rinunce e di rinascite», «un resoconto sincero, schietto e fedele di ciò che mi è capitato». Non un libro di inchiesta o di denuncia né un’occasione per togliersi qualche sassolino dalla scarpa, premette l’atleta, ma la storia di un uomo che oggi, a 36 anni, sente di aver chiuso un ciclo importante della sua vita. In «Dopo il traguardo» non mancano rivelazioni rispetto al suo «scivolone» nel vortice del doping. «Innsbruck-Vienna, Vienna-Antalya. A Carolina e ai miei genitori ho detto che sarei andato a Roma, alla Fidal — scrive Schwazer — Ho tenuto il cellulare acceso anche di notte, per evitare che partisse il messaggio della compagnia telefonica turca. Ragionavo già da tossico. O meglio, sragionavo. Ed ero pronto a mentire, perché doparsi vuol dire anche mentire». Nelle 240 pagine l’atleta fa accenno anche al suo incontro con la sua ex storica, la pattinatrice Carolina Kostner: «Mi ha mandato un messaggio per invitarmi a una festa a Ortisei, per l’argento di Göteborg: il suo primo, vero, grande successo. Ancora non ci conoscevamo. Le ho risposto che dovevo allenarmi e, per non fare brutta figura, mi sono offerto di andare a trovarla a Torino. (…) Dopo una pizza e due bottiglie bevute quasi da solo, le ho rovesciato il drink addosso. (…) Abbiamo fatto le cinque del mattino. Eravamo in sintonia. La mia solitudine era molto simile alla sua». Altre pagine, altre ragazze: Judith («La ragazza che ho conosciuto in maggio e che da allora è sempre nei miei pensieri») e Sabrina («La rottura non è stata facile ma nella mia vita non c’era più spazio per lei. La marcia si era divorata tutto»). Quindi l’incontro con Kathrin, poi diventata sua moglie: «La conosco da una vita, Kathi. Ho sempre pensato che fosse la ragazza più bella di Vipiteno. Più di una volta avevo fatto il primo passo, senza fortuna. Mi parlava per pochi minuti, poi spariva e non si faceva più vedere per il resto della serata». Avventure e disavventure umane e sportive che, oggi, Alex Schwazer si sente pronto a raccontare senza vergogna, rimpianti o rimorsi. Ma il percorso di autoanalisi della scrittura, ammette, non è stato semplice.

Hanno inciso i due recenti verdetti che hanno chiuso un capitolo in modo abbastanza definitivo?
«Può essere, in effetti. Forse l’estate scorsa, con l’assoluzione giuridica e il no alle Olimpiadi, mi è scattato qualcosa dentro e ho deciso di chiudere i conti con il passato. Mi sentivo pronto. Adesso si è aperto un nuovo ciclo ma negli ultimi 15 anni ci sono stati cambiamenti incredibili nella mia storia personale: se i colpi di scena continuassero a quel ritmo potrei scrivere una biografia ogni tre anni. Chissà quante altre novità mi aspettano!».

A quale delle sue imprese sportive paragonerebbe la fatica di scrivere questo libro?
«A una 50 km di marcia perché anche delineando il percorso di un’autobiografia devi fare delle scelte. Quanto spazio dare a un certo tema? Come in gara: quante energie vuoi spendere dal chilometro “x” al chilometro “y”, pensando che ci sono altri chilometri da fare? Scrivendo ho dovuto chiarire a me stesso quanto soffermarmi sugli ultimi sei anni, su cui era già stato detto e scritto tanto. Scrivendo di getto tutto quello che mi veniva in mente senza un ordine avrei finito per dedicare due pagine ad alcuni periodi e ottanta ad altri».

Come si sente al termine di questa «maratona» letteraria?

«Non saprei dare un giudizio obiettivo, non so se il risultato sia interessante. Ma mi ha riempito di orgoglio darlo a mia moglie Kathrin e vedere che non smetteva più di leggerlo. Di tante cose non avevamo mai parlato, altre sapevo che non sarebbero state così piacevoli per lei: ho scritto pagine molto personali, anche su fidanzate precedenti, non solo su Carolina (Kostner, ndr), e per una donna non credo sia facile leggere gli aneddoti del passato. Invece lo ha definito “stupendo”. E lì devo ammettere che mi sono sentito più leggero perché tengo molto alla sua opinione e so che, anche se sono suo marito, sarebbe capacissima di dirmi che il libro è brutto».

Da chi altro aspettava un riscontro importante?

«Ho dato il libro a Sandro (Donati, ndr), il mio allenatore, a Gerhard (Brandstätter, ndr), il mio avvocato, chiarendo subito: non aspettatevi un libro d’inchiesta perché parlo solo della mia vita. Non sarei riuscito a trovare la motivazione per scrivere cinquanta pagine su come ho vinto a Pechino, sul doping o su quello che è successo a Rio nel 2016. Chi vuole saperne di più, online trova una rassegna stampa infinita. Non volevo trattare aspetti già dati in pasto all’opinione pubblica: volevo scrivere un libro personale, presentandomi come uomo, non come sportivo. Mi sono concentrato su cose che ancora nessuno sa ma che mi hanno formato tantissimo e che possono essere di aiuto a chi si trova in difficoltà e magari di sport non sa niente. Per questo il primo parere positivo dell’editore sull’impostazione che avevo dato è stato decisivo».

Com’è nato il progetto editoriale?
«Dopo la conferenza stampa del 2012 in cui ho ammesso di essermi dopato e ho chiesto scusa a tutti, la mia manager Giulia Mancini ha ricevuto migliaia di messaggi di solidarietà e di sostegno da parte di genitori, preti, insegnanti, persone comuni che non conoscevano i miei successi e non praticavano sport. Così Giulia mi ha proposto di scrivere la mia storia e, tra tante proposte, a inizio 2013 abbiamo deciso di procedere con Feltrinelli perché mi dava carta bianca. C’è stato un editore che non credeva a quello che era successo nel 2012 e si aspettava un libro di denuncia in cui avrei dovuto “confessare” quello che “veramente”, secondo lui, avevo fatto. L’ho mandato a quel paese. La mia casa editrice, invece, mi ha lasciato molto libero e al mio racconto ha riservato una revisione molto rispettosa».

Nell’introduzione scrive: «Non è la confessione di un diavolo e neppure l’apologia di un angelo. Chi vuole leggere la biografia di un uomo senza peccati ne deve scegliere un’altra, non la mia». Un approccio molto schietto.

«Nella mia vita ho fatto anche scelte completamente sbagliate che ho pagato a caro prezzo e altre persone ne hanno sofferto. Quando scrivi un’autobiografia sincera devi avvertire il lettore che non si troverà di fronte a un romanzo. Oggi non c’è nulla di cui mi debba vergognare: è tutta formazione, è la vita, a volte fai cose meravigliose e altre volte fai cose che fanno schifo anche a te. Cominciare a scrivere dal nulla è stato molto difficile: ho pensato che chiarire subito queste cose, per preparare il lettore alle successive 240 pagine, non fosse così male».

Non dev’essere stato semplice mettersi a nudo.
«In realtà è stato molto facile, perché in questi ultimi anni sono stato spogliato talmente tanto dalla stampa che ormai non ho più problemi a parlare di qualsiasi cosa».

Cosa si augura per questo libro?
«Vorrei che lo leggessero i giovani, anche ragazzi lontani dal mondo dello sport. Il libro verrà tradotto in più lingue e mi farebbe molto piacere se ci fosse anche la versione in tedesco, perché nella mia terra bilingue forse qualcuno vorrebbe leggere quello che ho da dire. Però in Alto Adige siamo solo 500mila e magari non è così conveniente pubblicare una versione solo per i miei conterranei».

Oltre a entrare in molte case, prima o poi questo libro arriverà sulla scrivania di qualcuno che l’ha ferita prendendo decisioni che hanno inciso pesantemente sulla sua vita. Si aspetta che oggi capiscano e che magari si scusino?
«Mi auguro proprio di no, spero che chi è lontano resti dov’è. Chi voleva scusarsi poteva farlo privatamente tanto tempo fa. Su molti punti cruciali della mia storia sono stato volutamente soft: non volevo che la mia autobiografia ospitasse pensieri di odio e rancore. Non ho concesso spazio alle persone che mi hanno ferito o a chi è salito sul carro del vincitore per poi scendere appena le cose sono andate male».

E i suoi figli, vorrebbe che un giorno lo leggessero?
«Secondo mia moglie questo libro sarà importante per Ida e Noah quando saranno grandi. Io preferirei raccontare loro le cose dal vivo, a quattr’occhi; non vorrei che scoprissero il mio passato leggendo un libro. Ed è lo stesso motivo per cui non ho scritto una prefazione né ringraziamenti: tutte le persone che meritavano un mio grazie per quello che hanno fatto per me, hanno avuto la mia gratitudine quando era il momento di ringraziarli. Non c’è bisogno di un libro per farlo, sarebbe troppo comodo, perfino ipocrita. Certe cose vanno fatte di persona al momento giusto».